mercoledì 31 maggio 2017

Regalità per la Civiltà Cristiana

di Fernando Crociani Baglioni

Il tradizionalismo ispanico afferma che l’origine della Regalità sta nella natura rerum, la natura delle cose, il diritto naturale rivendicato dal Cattolicesimo, che costituisce il fondamento di ogni ordinamento giuridico. (Francisco Elias de Tejada, Francisco Puy Muñoz, Rafael Gambra Ciudad, Paolo Caucci von Sauken). “La natura, termine che qui significa insieme, successione ed incrocio di molte cause morali e fisiche, agenti per necessità o liberamente, va provvidenzialmente disponendo gli avvenimenti in modo tale che si vada compiendo per via lenta e graduale, un processo di demarcazione e differenziazione in stati e relazioni sociali anteriori alla superiorità pubblica del soggetto, al quale per essere sovrano, solo manca l’assoluta indipendenza dalla comunità pubblica che egli stesso ordina”. (Enrique Gil Robles). “Se il potere si acquisisce conformemente al diritto scritto o consuetudinario stabilito in un paese, vi sarà legittimità d’origine; ma non vi sarà legittimità d’esercizio se il potere medesimo non si conforma al diritto naturale. Cioè a dire al diritto divino positivo, alle leggi ed alle tradizioni fondamentali che reggono la vita di un certo popolo. Se manca la legittimità d’esercizio, può accadere che quando questa illegittimità sia pertinace e costante – caso in cui si potrebbe arrivare ad una tirannia – venga a scomparire ed a distruggersi anche quella d’origine.  E può accadere, come molte volte avvenne nel Medioevo, che cominciando il potere con una illegittimità d’origine, si giunga poi a prescrivere il diritto del sovrano abbattuto, in quanto l’usurpatore acquistò la legittimità d’esercizio”. (Juan Vásquez de Mella) . La Regalità, col suo carisma della Corona, del Re e della Patria, non può certo nascere, legittimarsi e perdurare nella storia, se nata da violenze e plebisciti fasulli. Ma solo se nasce dalle lotte eroiche per la Fede e la liberazione dei popoli, dalla sacertà della causa e l’etica cui si ispira, e dall’indole combattente e religiosa di popoli che nei secoli vi anelino. E vi si riconoscano e conformino, quale massima istanza, simbolo vivente e presidio monarchico-dinastico di una realtà pubblica, di una società ispirata alla Fede dei padri, alla tradizione religiosa dei sudditi da cui discende, alla concordia della nazione nel suo complesso, delle regioni, comunità, realtà locali e corpi intermedi che organicamente la compongono.  Le monarchie europee, che nel 1914 scatenarono l’autodistruzione del mondo tradizionale che rappresentarono per un millennio, minate dall’interno e sotto l’attacco del positivismo ottocentesco, avevano palesemente smarrito la sacertà della loro missione storica e religiosa, il diritto divino dal quale si intitolarono e gloriarono nei secoli. Offrendo irresponsabilmente l’occasione alle forze rivoluzionarie massoniche, operanti dalle centrali di Londra e  Parigi, dal XIX secolo, per distruggerle. Spianando così la strada ai tragici totalitarismi atei e neopagani del XX secolo.  E fatalmente, dopo un secondo conflitto mondiale la cui tragicità non ebbe precedenti nella storia umana, e settant’anni di bolscevismo, alla società laicista, nichilista, secolarizzata, mondialista della globalizzazione, disgregata nel pensiero unico egemone nel presente. Nonostante tanto crollo, l’ideale  cristiano della Regalità, col fascino tradizionale  della Corona, simbolo sacro ed eroico di Dio, Patria, Re, Tradizione, famiglia, identità e libertà,  – vedi le nazioni cristiane dell’Europa Orientale postcomunista, ortodosse e cattoliche, che conobbero persecuzione e martirio  – si colloca ancora oggi  in cima alle forze spirituali,  conservatrici e controrivoluzionarie. Nella coscienza storica dei popoli liberati e risorti a nuova democrazia, nelle istituzioni di fiera resistenza opposte; come nel ’51 a Stettino,  nel ’56 a Budapest, nel ’68 a Praga, nell’81 a Danzica,  nell’89 a Varsavia, Berlino, Zagabria e Bucarest,  nel ’90 a Mosca,  Belgrado, Sofia e Tirana. Fronte all’aggressione e dissoluzione dell’Europa Cristiana. Per la rinascita, la risurrezione della nostra stessa Civiltà Cristiana.   

Luce della regalità nell’epoca dell’oscurantismo

di Primo Siena

Negli anni Sessanta del secolo XXº, sulla rivista Il Ghibellino (n.4, anno IIº, maggio 1963) pubblicata  da Salvator Ruta e Giovanni Allegra a Messina, Attilio Mordini sosteva che il dramma del mondo moderno consisteva, tra l’altro, d’essere rimasto orfano d’una “élite equestre, élite di Re”; causato tutto questo da un atto di suprema emanciazione razionalista che, negando la regalità suprena di Dio, dalla quale discende la regalità umana dei  Re,  pretende esorcizzare dall’umanità dolente i mali che l’affliggono: l’incertezza esistenziale, il disordine sociale, la povertà spirituale
Con il correr del tempo verso il terzo millennio, il dramma denunciato da Mordini s’è aggravato con lo spegnimento del divino per l’imporsi d’una presunzione d’autosufficienza che vive nell’ambito della modernità d’Occidente essendo penetrata persino nella gerarchia ecclasiastica cattolica romana; come dimostra il fatto che la Chiesa cattolica non festeggia più, nell’ultima domenica d’ottobre la festa di Cristo Re.
La festa era stata  istituita l’11 dicembre 1925 con l’enciclica Quas Primas, da Pio XI; il quale intendeva reagire  sia agli eccessi del laicismo moderno, che intendeva emanciparsi completamente da Dio, come quelli del cesaropapismo e del clericalismo, “sempre tentati – osservava il Pontefice – di servirsi di Dio a loro vantaggio”.
Pio XI riprendeva così, in tempi moderni, la regalità di Gesù Cristo dai libri dell’Antico Testamento, dove lo stesso Gesù è chiamato “il Principe che deve sorgere da Giacobbe e che dal Padre è costituito Re sopra il Monte Santo di Sion, che riceverà le genti in eredità e avrà in possesso i confini della terra”; perché “Il tuo trono, o Dio, sta per sempre in eterno: scettro di rettitudine è il tuo scettro reale”.
Nei tempi antichi, la regalità dei Re, era il riflesso umano della Regalità suprema di Dio. E bene lo dimostrava, nel secolo XIIIº, il rito della consacrazione del Re di Francia, al quale ungendolo Re, l’autorità ecclesiastica, gli ricordava:
 “Voi divenite partecipe del nostro ministero. Come noi siamo, nell’ambito spirtuale, i pastori delle anime; così Voi, per il temorale,  dovete essere un verace servo di Dio. Questo potere vi à dato non per dominare, bensì per servire”.
Nella Società medievale non esisteva vera dualità tra Stato e Chiesa, come ha acutamente osservato Attilio Mordini[i] non esistendo a quell’epoca uno Stato com’è inteso nei tempi nostri. Società civile e società  ecclesiale convivevano in un’unica componente (un solo gregge, con un solo pastore), con due diverse autorità e due gerarchie: la gerarchia civile e la gerarchia ecclesiastica.
A quel tempo, l’ordinamento civile era riassunto nell’Impero e l’Imperium indicava non una vera e propria società, bensí la virtú del comando esercitata su genti e territorio, cioè l’autorità temporale preposta all’ordine civile. E Roma, essendo sede della suprema autorità ecclesiastica, il Papato, era al tempo stesso la vera capitale, morale e spirituale dell’Impero in quando Urbs caput Imperii.
Mentre  tutte le legislazioni dei popoli antichi precristiani, - come osservò a suo tempo Juan Donoso Cortés -  riposavano sul timore degli dei, e la massima manifestazione del potere si esprimeva come una teocrazia dove potere civile e religioso erano  uniti nella stessa persona,  con l’avvento del Crisitianesimo si produce un cambio findamentale.
I due poteri  si separano per manifestarsi in due potestà: la potestà del “pensar corretto” (recte scire) secondo il magistero del Cristo mediante il potere religioso; la potestà del “agire correttamente”  (recte agere) mediante l’esercizio della politica conforme al magistero etico-morale religioso  del cristienesimo.
Romano Guardini, nel suo saggio su la fine dell’epoca moderna, agli inizi degli anni Cinquanta del secolo XXº, annotava al riguardo che durante il Medio Evo europeo, le due potestà si trovavano reciprocamente in una relazione di concordanze rette da una grande idea unitaria: la gerarchia.
Tra gerarchia civile e gerarchia ecclesiastica si svilupparono tensioni,  ammette Romano Guardini,  il quale però riconosce che: “La disputa tra il Pontefice e l’Imperatore assume  un senso più profondo di quello che appare a prima vista; in essa più che una contesa di potere politico esteriore, si trova l’unità e l’ordine dell’esistenza”.
Allora il Pontefice, quale successore di Pietro e sacerdote supremo della Chiesa di Roma secondo l’ordine di Melkitsedeq, partecipava della stessa dignità regale dell’Imperatore, cosí come l’Imperatore - essendo rivestito della suprema regalità  dalla quale procedeva ogn’altra autorità civile – era egualmente partecipe della dignità sacerdotale, sia pure di un sacerdozio civile cui era commessa la trasmissione del potere con   l’ordinazione di principi e cavalieri per via carismatica, mediante l’imposizione della mani ed il rito della spada.
Perciò il Papa portava in capo il triregno tenendo nelle mani le chiavi di Pietro; l’Imperatore, nel rito dell’incoronazione, veniva vestito con un mantello azzurro trapunto di stelle che simboleggiava la volta celeste, mentre sosteneva con una mano il pomo imperiale, simbolo delle terra.
L’origine divina del potere (omnis potestas a Deo, dice il magistero paolino), era  rammentata costantemente, e  non solo ai sudditi per invitarli all’obbedienza civile e politica, ma essa era ricordata specialmnte ai  regnanti per ammonirli che non potevano piegare la potestà regale di cui erano insigniti ai capricci della loro volontà o, peggio, del loro arbitrio.
La Chiesa – osservava al riguardo, a suo tempo Bertrand De Jouvenel – chiamando i principi “rappresentantati o  ministri di Dio” si proponeva  di far loro intendere che l’autorità non era un dono gratuito, bensì un mandato ricevuto dall’onnipotenza divina, per cui essi dovevano usarne secondo gli intendimenti e la volontà del Signore Iddio, dal quale l‘avevano   ricevuto[ii].
Simile concezione del potere era possibile, allora, solo in virtù della consonanza tra teologia e filosofia: una sintesi in cui la scienza della società  si congiungeva alla sapienza della vita dello spirito, la cui solare testimonianza brilla nelle Somme di Agostino e Tommaso  e nel simbolismo  solenne delle cattedrali gotiche.  Un simbolismo retto dallo stesso pensiero: tutta la struttura dell’esistenza umana deve ispirarsi e procedere dalla regalità trascendente di Dio.
Fu questo il tempo in cui il principio di regalità, sia civile che ecclesiastico, si manifestò nel suo splendore. Uno splendore riflesso nel mito cristiano  della figura di Re Artù, il cui simbolismo viene rinverdito, in epoca moderna, da quel grande ricreatore di miti che è stato l’anglosassone John Ronald R. Tolkien con il personaggio di Aragorn nella saga de Il Signore degli anelli.
 In Aragorn, Tolkien personifica la figura paradigmatica di un Re,  la cui ignota nobiltà regale non gli è riconosciuta per eredità, per cui egli deve dimostrare d’esserne degno mediante l’azione guerriera e la regalità del comportamento.
Aragorn, infatti viene coronato Re di Arnor e Gondorn nella cittá murata di Minas Tirith  solo dopo aver affrontato vittoriosamente con la spada i pericoli e gli eserciti mostruosi di Sauron, detentore  del  mortifero Potere Oscuro.
In questo simbolismo tolkeniano, affiorara una constatazione: la regalità ereditaria, essendo stata svuotata nei tempi moderni della sua dignità sacrale, può ristabilirsi solo mendiante il merito dell’azione e del comportamento coerentemente perseguiti..
Il riscatto della regalità, in questo nostri tempi sconsacrati, dominati dall’edonismo materialista e dal relativismo etico, non è più un obbligo della  sola nobiltà del sangue ( una regalità spesso ignorata o tradita dai suoi legittimi eredi), bensi un compito doveroso al quale  accingersi la stirpe dell’uomo comune, quand’egli sappia percorrere un cammino catartico in costante tensione tra le realtà della vita e le avventure dell’anima, e sappia elevarsi dalla routine quotidiana al gesto dell’atto eroico, perchè in questo sta il recupero della regalità umana.
Una regalità che vedo risplendere, esemplarmente, nelle figure carismatiche dello spagnolo  Josè Antonio Primo de Rivera e del rumeno Corneliu Codreanu.
Il primo, Josè Antonio, fondatore e Jefe nacional della Falange Spagnola, marchese d’Estella, era sí un nobile, ma d’una nobiltá giovane (la sua famiglia aveva ricevuto il marchesato  nel 1877); il quale consacra la sua regalità nell’atto della fucilazione - alla quale era stato condannato in Alicante da un tribunale settario della Spagna repubblicana -  il 20 novembre del 1936, pochi mesi dopo l’inizio della sanguinosa guerra civile.
 Prima d’avviarsi alla morte,  all’età di 33 anni,  egli aveva scritto nel suo testamento, tra l’altro: “Dio voglia che il mio sangue possa essere l’ultimo versato in lotte civili. Dio voglia che il popolo spagnolo, così ricco di profonde buone qualità, possa trovare nella pace, la Patria, il Pane, la Gustizia [...] Quanto alla mia prossima morte, l’spetto senza iattanza, perchè non é mai lieto morire alla mia etá, Ma senza protesta. Accettala, o Dio Signor Nostro,  per il sacrificio che rappresenta, a parziale riparazione di qunto vi è stato d’egoista e di vano in molta parte delle mia vita. Perdono con tutta l’anima quanti hanno potuto recarmi offesa, senza nessuna eccezione, e chiedo a tutti coloro cui debba la riparazione di qualche torto, grande o piccolo, d’essere perdonato”.
 Generose parole, queste, che dalla politica pur vigorosamente e lealmente combattuta senza risparmio, raggiungono la  regale nobiltá della metapolitica, la quale trasfigura l’umanità solare di José Antonio nel momento tragico della fucilazione, cui s’avvia dopo d’essersi confessato e comunicato cristianamente, mantenendo sotto la tuta azzurra del prigioniero lo scapolare della Vergine del Carmelo.
 Dinnanzi al plotone dei fucilieri, composto da otto tra anarchici e miliziani rossi volontari,   egli pronuncia con voce alta e chiara l’ultimo suo: Arriba España. In quel momento, senza attendere l’ordine di fuoco, si scatena una fucileria “a capriccio”, ad appena tra metri di distanza dal condannato,  come riferirà, poi,  un testimone oculare dell’esecuzione.
 Le pallottole colpiscono José Antonio alla gambe, con l’evidente intenzione di umiliarlo e farlo morire lentamente, ma egli cade sulle ginocchia senza un gemito, con gli occhi chiari  rivolti al cielo. E quando il capo plotone, prima di inferirgli il colpo di grazia, gli intima rabbiosamente di gridare”Viva la Repubblica”, ripete: Arriba España.
Il secondo, Corneliu Codreanu,  figlio di un professore di Liceo, è il capo carismatico della Legione dell’Arcangelo Michele, da lui stesso fondata il 24 giugno 1927. In lui la regalità rifulge sia nella vita personale, austera all’inverosimile (praticava  strettamente due volte la settimana un digiuno santificante), come  nella sua capacità di comamdo politico e guida spirituale. Il suo movimento ha le caratteristiche di un moderno ordine spirituale (i capi legionari pronunciavano un voto di povertà cui si attevano fedelmente), assai lontano dal modello del partito politico. Si trattava infatti di un movimento  che puntava a rivoluzionare le anime per formare un uomo spiritualmente nuovo.
Codreanu predicava e praticava una etica ascetica e guerriera, che era simultaneamente eroica, dove un nazionalismo costruttivo si congiungeva con lo spirito e la religione cristiano-ortodossa. In tutto questo rifulgeva il carisma di una regalità ecumenica che riprendeva l’idea dell’unione tra i vivi ed i morti in stretta comunità con Dio, supremo Pantocrator: una regalità che s’incorona con il serto eroico del sacrificio estremo, quando viene assasinato con tredici suoi legionari,  nel  bosco di Tangabesti il 30 novembre del 1938.
 Sono, queste,  figure esemplari d’una regalità nuova che vive il senso del sacro in dimensione metapolitica ed unisce due mondi modernamente incomunicati: il religioso  e il politico; due mondi dove la nobiltà regale dell’uomo di fede, cavaliere e legionario, si trova in un rapporto di costante polarità  con un realtà in cui prevale quasi sempre il deprezzamento dei valori trascendenti e spirituali che aspirano perennemenre all’Unico necessario che è Dio: Rex Regum et Dominus Dominantium.
La luce di questa  regalità  impulsa tutti noi, oggi, non a rifiutare la modernità, ma ad affrontarla con spirito guerriero per poterla attraversare vittoriosamente nei tempi bui, vincendone la caliginosa oscurità e le aggrovigliate contraddizioni.

Santiago del Cile, maggio 2017.



[i] A.Mordini, Il tempio del Cristiamesimo, Dell’Albero Ed. 1963, p. 87
[ii] B. De Jouvenel, Il potere, Rizzoli Ed. 1947, p.29.

martedì 30 maggio 2017

Album Fotgrafico della Solenne visita a Palermo di LL. AA. RR. Il Principe Don Pedro di Borbone delle Due Sicilie e del Figlio James























Le LL. AA. RR. Il Duca D'Aosta e il Duca delle Puglie Cittadini Onorari di Reano

   Nel 150° delle Nozze del Principe Amedeo di Savoia, Duca d'Aosta, con la Principessa Maria Vittoria Dal Pozzo della Cisterna (30 maggio 1867),  il Comune di Reano, ove furono celebrate, ha conferito la Cittadinanza onoraria alle  LL. AA. RR. il Principe Amedeo di Savoia, Duca di Savoia e di Aosta, e a Suo Figlio, Principe Aimone di Savoia, Duca delle Puglie.
Nell'impossibilità si presenziare,  S.A.R. il Principe Amedeo di Savoia, Duca d'Aosta, si è fatto rappresentare dal Presidente della Consulta dei Senatori del Regno, prof. Aldo Alessandro Mola.
Invitato dal Sindaco del Comune, Celestino Torta, a esprimere alle  LL.AA.RR.  il forte legame  che i Reanesi sentono per una pagina così alta della loro storia,  il prof. Mola ha sinteticamente evocato la figura del Duca Amedeo d'Aosta (1845-1890), secondogenito di Vittorio Emanuele II, Medaglia d'Oro al Valor Militare per la condotta  tenuta sul campo di Custoza, (1866), Re di Spagna col nome di Amadeo I (1870-1872), padre di Emanuele Filiberto, Duca della Vittoria, e quelle dei Duchi Amedeo, Viceré d'Etiopia, ed Aimone.
 Ha infine ringraziato il Comune e tutti gli organizzatori del ciclo di rievocazioni, a nome del Capo della Casa di Savoia,  S.A.R. il Principe Amedeo, che ne continua il nome e il Magistero storico e civile, nel segno di Vittorio Emanuele II, Padre della Patria, che si gravò del  “brut fardèl”   di unire l'Italia e farla progredire.
Dopo gli interventi di Fabrizio Nucera e di Francesco Cordero di Pamparato, la rievocazione è proseguita con la visita al Museo civico “Madonna della Pietà”, illustrato dalla sua leggiadra direttrice, Arabella Cifani.
Alle h. 15 di domenica 28 maggio nella sala conferenze della Basilica di Superga Domenico Cantore presenta il suo volume   “La Principessa diventata Regina”.

Altre iniziative sono programmate per impulso di Reano e di Centri studi e Gruppi storici animati dall'Amministrazione Comunale giustamente  elogiata in apertura dei lavori dalla Vicepresidente del Consiglio Regionale del Piemonte, dott.ssa Danila Ruffino.

mercoledì 17 maggio 2017

Cristianesimo e Impero Romano

di Marco Sudati

Lo scorso mese di gennaio il quotidiano La Stampa ha pubblicato un interessante articolo, a firma di Andrea Colombo, relativo ad un libro di recente pubblicazione, Gli ultimi giorni dell’impero romano, scritto dallo storico francese Michel De Jaeghere – direttore del Figaro Histoire – dedicato alle ragioni che portarono al crollo dell’Impero Romano d’Occidente, un tema di rilevante importanza storica e culturale.
Quello dei motivi per i quali si giunse, in Occidente, alla fine dell’impero creato dai Romani, è un argomento che, anche all’interno della famiglia politica della destra radicale, occupa un posto di rilevante importanza, contribuendo, spesso in maniera decisiva, a determinare il giudizio di molti nei confronti della religione cristiana.
È noto, infatti, che l’ambiente neo-pagano, presente all’interno della più ampia area ascrivibile appunto alla destra radicale, individua nell’avvento del cristianesimo la causa della fine dell’Impero di Roma, cronologicamente indicata nell’anno 476 d.C., ossia con la deposizione dell’ultimo imperatore romano d’Occidente – Flavio Romolo Augusto (noto anche con il nome di Romolo Augustolo) – imposta dal generale barbaro Odoacre.
Una vera e propria accusa quella mossa da taluni nei confronti del cristianesimo, il quale avrebbe minato in maniera decisiva l’esistenza dell’Impero per via della sua incompatibilità con l’etica della romanità e, dunque, con la stessa idea di impero da tale etica scaturita.
De Jaeghere, invece, sostiene, sulla scia di altri autori tra i quali il suo connazionale Jean Dumont (1923 – 2001), che a determinare la fine dell’Impero Romano d’Occidente non fu affatto l’avvento del cristianesimo bensì una serie di cause quali la denatalità, la corruzione endemica, l’abnorme tassazione e l’immigrazione fuori controllo (problemi che, in maniera crescente, stanno drammaticamente interessando la nostra Italia e buona parte dell’Europa occidentale).
Il cristianesimo, ad onta di quanto sostenuto dai suoi detrattori neo-pagani, non solo non provocò la morte dell’Impero Romano, ma cercò di impedirla vedendo in esso uno strumento perfettamente funzionale al mantenimento di quell’ordine civile necessario alla realizzazione del bene comune sul piano naturale e temporale.
A proposito di ciò il De Jaeghere sostiene, come scrive Andrea Colombo, che “Non solo i Padri della Chiesa, con in prima linea sant’Ambrogio (1), esortavano gli imperatori a combattere contro i barbari innalzando il vessillo del Cristo a difesa della città eterna, ma consideravano Roma la nuova Gerusalemme, che avrebbe diffuso in tutti i suoi territori il verbo di Gesù. La legislazione imperiale sotto l’influsso del cristianesimo tentò di arginare la degenerazione dei costumi e introdusse misure contro l’usura, l’aborto, il divorzio e l’omosessualità. Alcune leggi imposero di sopperire alle necessità delle classi più povere. Ma questi provvedimenti venivano costantemente disattesi, la corruzione era diventata l’unica legge di Roma, gli aristocratici vivevano al di là del bene e del male, i miserabili diventavano sempre più miserabili. Formalmente l’impero era cristiano, ma il sistema era in putrefazione.”
A proposito della compatibilità tra fede cristiana e concezione imperiale romana, ci sembra opportuno proporre un brano tratto dall’opera di Marta Sordi (2), I Cristiani e l’Impero Romano. Si tratta di una citazione un po’ lunga, ma che vale la pena di riportare.
“La concezione dello Stato che Ambrogio enuncia nell’Esamerone e nelle lettere attinge, in egual modo e senza compromessi di sorta, alla tradizione apostolica del cap. 13 della lettera ai Romani e del cap. 2 della I Petri e alla tradizione romana del principato civile e della statio principis, che aveva avuto nella cultura di matrice stoica del I secolo la sua elaborazione ideologica: in profondo contrasto con la concezione teocratica orientalizzante che, importata nel mondo romano da Antonio, ebbe la sua affermazione nelle esperienze aberranti di Caligola e di Nerone e nella autocrazia di Domiziano dominus et deus, questa concezione, affermata da Augusto, aveva trovato in Tiberio e in Claudio i suoi fedeli continuatori e sopravvisse, almeno a livello di idealità e di dichiarazione programmatica e come espressione della più autentica tradizione romana, anche nei secoli del dominato fino alla tarda antichità, come rivela la ripresa di Ambrogio. La consapevolezza della possibilità di un accordo fra la concezione romana del principato e la concezione cristiana dello Stato si manifesta fin dal I secolo, in continuità con la tradizione apostolica, nella lettera di Clemente Romano ai Corinzi, riaffiora potentemente nell’apologetica del tempo di Marco Aurelio e, particolarmente, in Melitone, trova la sua espressione più eloquente nell’affermazione dell’Apologeticum di Tertulliano (33,1): «Cesare è maggiormente nostro (che vostro) perché è stabilito al potere dal nostro Dio». Si potrebbe dire, paradossalmente, che l’Impero cristiano, tradotto in realtà da Costantino e dai suoi successori, è già in potenza in questa affermazione di Tertulliano, che viene al termine di una dichiarazione di lealismo a Roma e al suo impero, estremamente impegnativa e tale da smentire coloro che vedono nella cosiddetta teologia politica il frutto della pace costantiniana. Tertulliano (ibid. 30,4) dice che i Cristiani pregano per gli imperatori e chiedono «una vita lunga, un impero sicuro, una casa tranquilla, eserciti forti, un senato fedele, un popolo onesto, un mondo in pace»; e ancora: essi pregano (ibid. 32,1) «per la saldezza generale dell’impero e per la potenza romana» perché sanno che «tramite l’impero romano viene ritardata la massima violenza che incombe sull’universo e la stessa fine del mondo apportatrice di orribili flagelli». Si tratta, come è noto, dell’interpretazione, corrente nei Padri, del famoso passo della II lettera ai Tessalonicesi (2 Ts, 2, 6-7) sull’impedimento, cosa e persona, che si frappone alla manifestazione dell’Anticristo: prescindendo qui da ogni tentativo di spiegazione di questo passo misterioso, il fatto che la tradizione cristiana, fino a Lattanzio, Ambrogio, Agostino abbia identificato questo impedimento nell’impero romano e nel suo imperatore, è, a mio avviso, indizio certo della mancanza di ostilità pregiudiziali del cristianesimo verso l’impero romano come istituzione e come ideologia. Attraverso la convinzione che l’impero romano durerà quanto il mondo (Tertull. Ad Scap. 2), i Cristiani primitivi ricuperano e fanno proprio il concetto di Roma eterna: «Mentre preghiamo per ritardare la fine – dice ancora Tertulliano (Apol. 32,1) – favoriamo la durata perpetua di Roma». Non si può dire dunque che l’ideologia imperiale romana sia stata avvertita dai Cristiani come incompatibile con la loro fede”.
Occorre, tuttavia, riconoscere che lo spettacolo oggi offerto da una parte del mondo cattolico e della stessa gerarchia ecclesiastica – che, in maniera dissennata, invita le nazioni europee ad aprire incondizionatamente le proprie frontiere agli immigrati di ogni provenienza – incoraggia, tra i meno avveduti e formati, la convinzione che la religione cristiana si possa davvero prestare ad essere elemento capace di favorire l’elisione dell’identità nazionale, in nome di un insano universalismo egualitarista e di un umanitarismo vacuo e fine a se stesso.
Una religione che sembrerebbe davvero poco compatibile con una visione del mondo fondata sulla pratica delle virtù etiche poste a fondamento di un forte ordinamento civile, centrato sull’amor di patria, sulla dignità dello Stato, sul principio gerarchico; una religione che ben si adatterebbe alla mentalità della decadente Europa.
Ma non bisogna farsi trarre in inganno: la sostanza del cattolicesimo, infatti, non ha nulla da spartire con la sua caricatura elaborata nei circoli dell’eresia modernista (3), dominante nella cosiddetta “Chiesa postconciliare” o “vaticanosecondista”. Confondere il cristianesimo cattolico-romano con quella specie di nuova religione sorta con il Concilio Vaticano II, significa non aver idea di cosa sia accaduto nella Chiesa Romana dalla morte di Pio XII (1958), l’ultimo papa dichiaratamente e vigorosamente anti-modernista, fautore di una Chiesa apertamente contraria alle istanze culturali ed ideologiche della modernità anti-cristiana.
Pensare che le prese di posizione e i discorsi di certi uomini di Chiesa – “illuminati” dallo “spirito del Concilio” (il Concilio Vaticano II), dunque pregni di pacifismo, ecumenismo relativista e sensi di colpa per il passato della Chiesa e della Cristianità europea – coincidano con l’ortodossia cattolica, vuol dire compiere lo stesso errore commesso dalle autorità della Roma pre-cristiana, che confondevano il cristianesimo con l’eresia montanista (quella sì veramente degna di disapprovazione e condanna, non solo da parte della Chiesa ma anche da parte dello Stato, in quanto portatrice di un’oggettiva minaccia all’integrità della società, in virtù della sua a-socialità fondata su motivi millenaristici che invitavano al disimpegno civile e al disprezzo dell’autorità, nonché dei doveri verso la società e verso lo Stato, compreso quello del servizio militare).
Diverso naturalmente è il discorso a proposito dell’incompatibilità tra cristianesimo e Impero Romano sul piano strettamente religioso, almeno per quel che concerne il rifiuto dei cristiani di prestare atti di culto in contrasto con la loro fede.
I Romani, caratterizzati da una spiccata religiosità, credevano fermamente nell’esistenza e nell’importanza di un nesso tra le fortune di Roma ed un corretto rapporto con la divinità. Si tratta della pax deorum, ovvero del regime di pace e di concordia stabilito tra gli uomini e gli dei, fondato sul culto tributato dai Romani alle divinità pagane. Il timore delle autorità romane che l’atteggiamento dei cristiani potesse infrangere la pax deorum e provocare effetti nefasti per le sorti di Roma, ha certamente costituito uno dei motivi capaci di scatenare le persecuzioni nei confronti dei cristiani.
Una preoccupazione comprensibile sino ad un certo punto però, ossia qualora veramente i cristiani fossero stati quei soggetti sovversivi mossi dalla volontà di affossare l’Impero e dediti ad oscure ed immorali pratiche, come venivano descritti e denunciati alle autorità dai loro calunniatori, tra i quali anche membri influenti delle comunità ebraiche (4).
La vera incompatibilità tra l’autorità romana ed i seguaci di Gesù Cristo si collocava solo sul piano religioso, e non avrebbe potuto essere altrimenti vista l’impossibilità dei cristiani di aderire al relativismo religioso, allora dominante, e di sacrificare agli dei, ovvero professare pubblicamente un culto diverso da quello cristiano. Per i primi cristiani non era in discussione la fedeltà alla legittima autorità politica, per la quale si doveva pregare e combattere (le legioni pullulavano di cristiani), ma la pretesa che essi prestassero atti di culto alle divinità pagane: i cristiani non potevano tradire la loro fede disobbedendo al comandamento di Dio “Io sono il Signore Dio tuo, non avrai altro Dio all’infuori di me”.
I cristiani non provocarono la caduta dell’Impero Romano, la cui fine dipese, invece, da altri e decisivi fattori: la decadenza dei costumi, la denatalità degli italici, l’enorme pressione esercitata dai popoli barbari. Il venir meno di una certa tensione morale e della proverbiale etica che caratterizzò la migliore romanità, il calo demografico delle popolazioni italiche, che avevano rappresentato la forza anche militare di Roma, unitamente all’impossibilità di difendere i vastissimi confini dell’Impero, furono i reali motivi della sua caduta.
L’atteggiamento dei cristiani e della Chiesa nei confronti di Roma e del suo impero, può essere efficacemente rappresentato dalle parole con cui la Professoressa Marta Sordi, nella sua opera L’impero romano-cristiano al tempo di Ambrogio, descrive proprio l’atteggiamento del santo vescovo di Milano (dal 286 d.C. al 402 d.C. capitale dell’Impero Romano d’Occidente) il quale “rifiuta di identificare Roma con la sua tradizione religiosa e afferma, anzi, che la religione pagana, lungi dall’essere caratterizzante per il popolo romano, era la sola cosa, con l’ignoranza di Dio, ad accomunare Roma con i barbari. Ma proprio mentre rifiuta come vana e anacronistica e non specifica del mos romano la religione dei padri, afferma la continuità della nuova Roma, che non si vergogna di convertirsi da vecchia, poiché si tratta di un cambiamento in meglio, con le disciplinae e con i mores con cui la vecchia Roma aveva sottomesso il mondo: la virtus di Camillo, la militia di Regolo, l’esperienza militare di Scipione. Rifiuto della tradizione religiosa di Roma e fedeltà piena alla sua tradizione politica, civile, militare, identificata con l’autentico mos maiorum di Roma” 
Ambrogio riteneva che il paganesimo fosse degenerato a tal punto da costituire, sia sul piano morale che politico, un pericolo per l’integrità dei costumi. Il vescovo di Milano individuava le ragioni della decadenza religiosa pagano-romana, nella sua frantumazione in svariati e diversi culti, cosa che aveva determinato il venir meno della sua forza e della sua capacità di guidare lo Stato; indicando, invece, nel cristianesimo l’elemento purificatore ed unificante, conforme all’autentico mos maiorum romano.
I cristiani, dunque, non affossarono l’Impero che inizialmente li aveva perseguitati (anche se non in maniera sistematica e continua; prima che esso divenisse cristiano, infatti, vi furono periodi di relativa tranquillità), anzi lo ereditarono considerandolo come qualcosa per essi preparato dalla Provvidenza (5). Tanto è vero che dopo il caos seguito al venir meno dell’autorità imperiale d’Occidente e alle invasioni barbariche – e grazie all’opera di recupero e conservazione dell’eredità greco-romana compiuta dalla Chiesa – la stessa Chiesa tenne a battesimo il nuovo Impero Romano d’Occidente: il Sacro Romano Impero, nato nella notte di Natale dell’anno 800 con l’incoronazione, a Roma, di Carlo Magno, da parte di Papa Leone III.
Tutto questo mentre a Costantinopoli (l’antica Bisanzio) l’Impero Romano e Cristiano d’Oriente continuava ad esistere, cosa che avrebbe fatto fino al 1453. Se il cristianesimo avesse avuto in odio l’idea di impero, non ne avrebbe perpetuato l’esistenza come, invece, fece tanto nella parte occidentale quanto in quella orientale dell’impero fondato dai Romani.

Note

(1) Ambrogio (340 – 397), proveniente da famiglia di antica nobiltà senatoria romana e acclamato vescovo di Milano il 7 dicembre del 374, è considerato il più autorevole teorizzatore e interprete della concezione romano-cristiana dell’impero.
(2) Marta Sordi (1925 – 2009) è stata docente di storia greca e romana presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, membro dell’Accademia di Scienze e Lettere dell’Istituto Lombardo e dell’Istituto di Studi Etruschi.
(3) Come più volte ricordato sulle pagine di Ordine Futuro, il modernismo è un’eresia, ovvero un insegnamento contrario al magistero della Chiesa, venutasi a manifestare soprattutto all’inizio del XX secolo. Fu duramente combattuta dal Papa San Pio X il quale, nell’enciclica Pascendi dominici gregis (1907), la definì summa di tutte le eresie. Essa rappresenta, in sostanza, il tentativo di conciliare la fede cattolica con le istanze filosofiche del mondo moderno. Nucleo del modernismo è l’immanentismo, ossia la pretesa di ridurre la verità religiosa alla mera esperienza umana, dalla quale scaturirebbe in un costante divenire. L’influenza del modernismo, soprattutto nella sua rinnovata veste di neo-modernismo, condannato dal Papa Pio XII con l’enciclica Humani generis (1950), si è manifestata in tutta la sua gravità nel Concilio Ecumenico Vaticano II ed in particolare nel periodo che lo ha seguito, il cosiddetto post-concilio.
(4) “L’invidia e la gelosia furono la nota caratteristica della lotta ebraica contro Gesù e i suoi; il vangelo ci narra vari episodi di questo sospettoso accanimento; e Pilato per quanto poco s’occupasse di ciò, pure “sapeva che per l’invidia (dia yqonon) lo avevano consegnato” a lui (Matt., XXVII, 18) […] Clemente Romano ci accenna chiaramente che la persecuzione neroniana fu ispirata dagli ebrei dei quali finalmente caddero vittima Pietro e Paolo: «Per la gelosia e l’invidia (dia zhlon cai yqonon) le massime e santissime colonne (della Chiesa, i principi degli Apostoli) patirono persecuzione e combatterono fino alla morte […] Pietro che dall’iniqua gelosia non uno o due ma più travagli sostenne […] Per gelosia e contesa Paolo ebbe il premio del patimento […] A questi […] si aggiunse una gran moltitudine di eletti che, sofferte molte pene e tormenti per la gelosia, furono fra noi di ottimo esempio.» Brano tratto dall’opera di Mons. Umberto Benigni Storia sociale della Chiesa Vol. I, ed. Vallardi, Milano, 1906, pagg. 80-87
(5) Romanum imperium, quod Deo propitio christianum est (S. Agostino, De gratia Christi, II, 17, 18 – 418 d.C.). Il valore provvidenziale dell’Impero Romano è ricordato anche dal sommo poeta, il cattolico Dante Alighieri (1265 – 1321), nella sua Divina Commedia, in particolare nel Canto VI del Paradiso, dove a celebrarlo è la figura di Giustiniano (482 -565), l’imperatore romano d’Oriente autore del Corpus Iuris Civilis, l’immensa opera giuridica posta alla base di tutto il mondo romanizzato medievale. Secondo Dante, dunque, è stato il volere divino a determinare la creazione dell’Impero Romano e le “due Rome”, quella pre-cristiana e quella cristiana, sono perfettamente integrate in un unico progetto provvidenziale. Non a caso Dante ha scelto Virgilio – il cantore delle origini di Roma – come guida nel viaggio ultraterreno raccontato nella sua maggiore opera, e chiamato ‘romano’ lo stesso Cristo (“… e sarai meco sanza fine cive di quella Roma onde Cristo è romano”. Purg. XXXII, 102). Secondo San Tommaso d’Aquino (1225 – 1274) – il Dottore Comune della Chiesa – l’Impero Romano si è trasfigurato, nella Chiesa, dal piano temporale a quello spirituale. Come ricordato da Don Curzio Nitoglia, nel Commento alla II Epistola ai Tessalonicesi II, 3-4 (capitolo 2, lezione 1, n. 34-35) l’Aquinate, parlando dell’avvento dell’anticristo, spiega che “ci sarà l’apostasia dall’impero romano al quale tutto il mondo era sottomesso (…). L’impero romano è stato istituito affinché sotto il suo dominio la fede venisse predicata in tutto il mondo. (…). L’impero romano non è venuto meno, ma si è trasformato da temporale in spirituale. Perciò bisogna dire che per apostasia dall’impero romano si deve intendere non solo quella dall’impero temporale, ma anche quella dall’impero spirituale cioè dalla fede cattolica della Chiesa romana”.

lunedì 8 maggio 2017

A Riccia le spoglie di una Regina di Napoli

di Claudio de Luca

Pochi sanno che in Molise riposano le spoglie mortali di una Regina di Napoli, Costanza d’Altavilla (1377-1423), sepolte nella Chiesa di S. Maria delle Grazie in Riccia. Figlia di Manfredi III Chiaramonte, Conte di Modica, Ammiraglio e Gran siniscalco del Regno di Trinacria, Vicario del Regno e Maestro Giustiziere, venne chiesta in isposa da Margherita di Durazzo per il figlio (13enne) Ladislao I d’Angiò, Re di Napoli e di Ungheria. 
La celebrazione avvenne il 15 di agosto dell’anno successivo, dopo l’elezione del nuovo papa Bonifacio IX; e così, per tre anni, Costanza fu Regina di Napoli, finché venne ripudiata. Sciolto il matrimonio col pretesto della minore età dei contraenti, Ladislao sposò Maria di Lusignano, figlia del re Giacomo I di Cipro, e Costanza fu costretta a sposare Andrea di Capua conte d’Altavilla.
Nel corso della cerimonia, ad alta voce e nella pubblica piazza, fu lei stessa a dire al novello sposo: ”Puoi vantarti d’avere per concubina la moglie del tuo Re“. A tutt’oggi, il mausoleo di re Ladislao, posto nella Chiesa di S. Giovanni a Carbonara in Napoli, reca scolpiti in rilievo i nomi delle sue tre mogli; fra questi, quello di Costanza.
Sulla permanenza della Regina di Napoli a Riccia sono nate svariate leggende. Gli esponenti della famiglia de Capua restano nel Paese per tutto il periodo feudale. Con Bartolomeo III raggiungono, agli inizi del ’500, l’apice della fortuna. Questi ottiene l’investitura di tutti i suoi beni e fu nominato Vicerè della Capitanata e del Molise.
Impegnato in studi di giurisprudenza, è autore di un libro sulle consuetudini del Regno. Fece costruire Palazzo Marigliano a Napoli; ristrutturò e completò il castello e la Chiesa di S. Maria delle Grazie a Riccia, dov’è sepolto. Furono suoi fratelli Andrea, Duca di Termoli e signore di Gambatesa e Campobasso; Giovanni, Capitano delle milizie aragonesi, morto in battaglia per avere salvato il Re Ferrante a cui aveva ceduto il proprio cavallo; Fabrizio, arcivescovo d’Otranto. Bartolomeo VI fu l’ ultimo feudatario dei de Capua e fruì dei suoi feudi per 60 anni. Dagli avi ereditò il titolo di Protonotario del Regno e fu Colonnello del Reggimento “Terra di Lavoro” nella battaglia di Velletri (1744), fondamentale per la dominazione dei Borboni sul Regno di Napoli. Fu ferito ad una coscia; e, in seguito a questo avvenimento, con una supplica al re, cercò di recuperare anche i feudi persi a suo tempo dalla sua antenata Costanza di Chiaromonte.
Poi, a causa di sperperi e di debiti accumulati, i possedimenti furono affidati a Governatori ed a fidati Erari e non poche furono le cause che lo videro coinvolto, tra cui quella contro l’Università (il Comune) di Riccia. Alla sua morte, non avendo successori, il Regio Fisco incamerò tutto. I conti con la famiglia vennero chiusi durante la rivoluzione del 1799, con l’assalto e la parziale distruzione del palazzo riccese di cui restò ben poco. Il colpo di grazia intervenne col terremoto del 1805, al punto che solo il maschio di guardia è arrivato integro fino ad oggi. Dopo il 1848, anche nell’agro riccese imperversavano bande di briganti (i Pelorosso, i Varanelli ed i Caruso) che continuarono a saccheggiare le campagne fino al XIX secolo.
Del castello de Capua non si hanno notizie precise. Sotto la signoria di Andrea, fu abitato da Costanza. Con Bartolomeo III si ingrandì assumendo carattere militare. Ai tempi del suo massimo splendore occupava un’area di circa 1.020 mq con quasi 40 ha di parco, delimitato da un muro ed utilizzato come riserva di caccia per gli ospiti.
La residenza dei principi era molto confortevole; purtroppo, ritenuto un emblema delle oppressioni feudali, fu oggetto dell’odio distruttivo della popolazione riccese nel 1799, e non venne più ricostruito. Ne riuscirono, quasi integri, solo il portale, il torrione, una cisterna, parte del baluardo ed alcuni muri. Danneggiato ancora con il terremoto del 1805, oggi mostra solo una torre, superstite delle 8 originarie. Alta quasi 20 m, è composta di conci ed è costituita da una zona inferiore a scarpa e da una superiore cilindrica, rifinita in alto da beccatelli. Una scritta reca il motto:”Avvicìnati, se vieni come ospite; fuggi, se sei un nemico, affinché non ti colga l’ira di Giove!“. Notevole il serbatoio per l’acqua, scavato interamente nella roccia, nella cui parte più profonda furono allocati i resti delle carceri e delle camere di tortura. Accanto alla torre principale resta una torretta secondaria, a difesa dell’entrata e del ponte levatoio. Recentemente i ruderi del castello sono stati oggetto di restauro.

Convegno sull'Araldica ad Oriolo Romano (VT) il 13 e 14 maggio




sabato 6 maggio 2017

Tommaso Romano, "Elogio della Distinzione" (Ed. Thule)

di Pier Felice degli Uberti

Conosco Tommaso Romano dalla fine degli anni ‘70 del secolo scorso, e già allora trasparivano i prodromi e lo svettare della sua profonda formazione culturale acquisita anche con la laurea in filosofia e pedagogia e la specializzazione in sociologia. Ho assistito alla fondazione di una particolare casa editrice, la Thule di Palermo, con un catalogo dei più svariati argomenti della tradizione difficilmente reperibile altrove, seguito da un impegno civico- politico che lo vide consigliere provinciale di Palermo nel 1990, poi assessore alla cultura della Provincia sino ad arrivare alla vice-presidenza e poi ancora assessore comunale alla Cultura della città di Palermo. Filosofo, letterato, antropologo, autore di saggi, raccolte ed interventi, ma anche poeta, ora ha dato alle stampe l’Elogio della Distinzione. Così si esprime l’autore nella Premessa: «Come è attitudine e desiderio dell’Autore di queste note, si è scelto di trattare ancora una volta un tema nodale, la Distinzione, tessendone l’Elogio. Certo, un libro come questo - realizzato grazie all’unione di saggi stesi da chi adesso scrive con un ricco e per certi versi unico Florilegio, fatto di frasi, aforismi, sentenze e brevi trattazioni tratte dalla Storia, dalla Filosofia e dalla Letteratura, nonché dalla ricerca scientifica e, inoltre, arricchito da un prezioso Saggio stilato e donato all’uopo dall’illustre studioso Amadeo Martin Rey y Cabieses e completato da specifica bibliografia - è sempre un rischio e un azzardo. L’obiettivo del testo è indicare ciò che è considerato inattuale e scorretto rispetto ai tempi che viviamo, propriamente per sottolineare la sempre permanente concezione di Aristocra­zia, Cavalleria, Nobiltà, intesi come segno e consapevolezza di Stile, per una risvegliata coscienza d’affinamento e qualificazione del soggetto, di Distinzione appunto, rispetto a tutto ciò che è, invece, conforme, standardizzato, massificato nel singolo e nel processo abbrutente informe come drammaticamente avviene nella società del nostro tempo. Recuperare, attualizzando in positivo, il concetto e la pratica della Distinzione, non si­gnifica certo proporre il disprezzo degli altri o la separatezza aprioristica e irreale. Tutt’altro. La Distinzione può essere perseguita da tutti, volendolo, ordinando le idee, seguendo studio, esempi e ciò che di nobile ditta dentro, riscoprendo l’unicità e l’irrever­sibilità che contraddistinguono da sempre ogni donna e uomo apparsi sulla terra, frutto di una Creazione e non di una ideologica e indimostrata “fede” evoluzionistica. La dignità è di tutti e per tutti. L’accrescimento delle virtù è ciò che, invece, seleziona e distingue. Quello che si propone, con ciò che indicano il titolo stesso e i fondamenti contenuti nel libro è, quindi, l’ideazione e forse l’utile realizzazione di un “manuale”, una sorta di codice di sopravvivenza e di riscossa, con un piccolo scrigno di saggezza che centinaia di Autori antologizzati di tutti i tempi ci donano e propongono, senza avere in occulta vista l’ombra di discriminazioni e razzismi di qualsiasi genere, questi sì reperti mostruosi d’ideologie e antropologie perverse e di un’idea zoologica dell’uomo che sfocia, in estremo, in immane selezione eugenetica. Tornare all’equilibrio e all’equità vera, alla sostanzialità del linguaggio, come ha insegnato Attilio Mordini, sono fonti necessarie per ristabilire e ridare qualità e organicità al corpo sociale, rivalutando, vivificandole, le naturali gerarchie dalla dimensione asfittica che viviamo, piuttosto che isterilirle del tutto, in una prospettiva virtuosa di miglioramento, realmente aperta, facendoci uscire, se solo lo si decidesse, dall’uniforme e non divenendo pedine forse inconsapevoli, strumenti di “élite” oligarchiche e dirigiste che impongono e orientano gusti, opinioni, costumi, mode, oltre che l’economia, la politica e lo stesso diritto, in nome di una astratta e falsa libertà. Quanto di più controcorrente, insomma, si possa proporre, in tesi, per una necessaria riforma intanto di sé stessi e, quindi, della comunità; riforma che potrebbe apparire, a prima vista, una mera illusione, una utopia o un disperato grido al deserto. Tuttavia, si deve partire o ripartire sempre da uno, dall’uno, perché proprio dall’Uno proveniamo e a Lui, se ci salveremo, torneremo. Anche in tempi apocalittici come sono quelli presenti, intrisi di “pioggia di zolfo e di piombo”. Distinzione, ancora, per mettere in evidenza e fare l’apologia di ciò che distingue spiritualmente, operando necessarie distanze rispetto alla babele delle volgarità; apologia dell’educazione e dell’etica tradizionale, della cortesia e della disponibilità, attitudine alla delicatezza e rispetto per tutti a cominciare dall’aiuto possibile - evitando la falsa retorica dell’umanitarismo - per i più sfortunati, emarginati, deboli, anziani, indifesi, recuperando così lo spirito e l’attitudine della più classica e nobile Cavalleria. La Distinzione è intrinsecamente aristocratica ed è anche un modo, un tratto, che rivela di ognuno lo stile, la raffinatezza, l’eleganza, la sobrietà, la finezza, il garbo uniti a discrezione, fermezza, signorilità e a gentilezza che fanno, ancora, affermare che quella tale Signora o quel tale Signore, sono soggetti distinti, capaci di promanare un’aura, un fascino, fino a poter raggiungere - in casi specialissimi - il vertice della regalità, anche in tempi di crisi e decadenza. E in effetti, malgrado tutto, si possono evidenziare positivamente non poche persone in grado di contrapporsi con equilibrio ai comportamenti di dozzinalità, rozzezza, volgarità, cafonaggine e violenza nei modi, negli atti, nelle parole. Ecco ancora una distintiva qualificazione che attiene all’essere o al mostrarsi gentiluomo o gentildonna, senza sottomissioni al divenire “zerbini”, gregari, sfruttati, e così privi di autonomia e personalità. Ancor di più, la Distinzione è atto e forma necessaria per saper indagare e distinguere ciò che è bene da ciò che è male, vista anche la vischiosità e la liquidità odierna che tendono, invece, ad annullare la capacità di esprimere valutazioni e giudizi, non separando il giusto dall’ingiusto, facendo così trionfare il relativismo e il minimalismo. L’esame plurale delle posizioni espresse da molti Autori - specie contemporanei o direttamente interpellati per realizzare l’Antologia che segue - non deve distogliere da quella costante che in effetti le unisce: il rifiuto in radice dell’uniformità e
dell’indistinzione fra gli uomini. Riconosceremo così coloro che pongono l’accento più sulla differenziazione del comportamento e dell’interiorità, della qualità e del merito inteso come una sorta di primato da sottolineare, rispetto a chi, invece, punta sulla ereditarietà, l’innatismo e sulla solidità della storia seppur ovviamente dinamica; entrambi in realtà concordano sulle cause dei processi dissolutivi, perniciosi aspetti della secolarizzazione e della tecnolatria, ponendo ipotesi di soluzione ad equazioni possibili di affrancamento, di distinzione appunto. Compito è trovare una sintesi alta (che non è il banale sincretismo), un’auspicabile convergenza che si possa porre come metodo e pedagogia della decisione anzitutto, per affrontare i processi critici sul piano esistenziale e spirituale, nella sottolineatura appunto della discretio, della Distinzione. Questi sono l’invito e il suggerimento che si lasciano, senza aprioristicità, allo studioso e al lettore. Omnia praeclara rara. Fare Apologia della Distinzione, saper uscire dal coro, prendere le distanze e indicare una via per ritornare liberi, padroni di se, riconoscendo anzitutto la selettività e il merito quali valori eminentemente aristocratici, da conquistarsi con una vita coerente con i prin­cipi alti professati, con dignità e con onore. Professare, insomma, “idee chiare e distinte”. Per essere e non per apparire». Nella premessa viene delineata tutta la materia contenuta nella pubblicazione, che è un unicum per i contributi portati, e per le tematiche oggi inusuali. I punti chiave ed i concetti vanno ricercati particolarmente nell’essenza delle parole che accompagnano il titolo dell’opera ricordando che la distinzione, il fatto di distinguere, è in senso attivo l’atto stesso o giudizio mediante il quale si distingue, cioè si riconosce e si afferma una intrinseca diversità fra esseri, apparentemente simili o analoghi o comunque posti in relazione tra loro. Le tematiche focalizzate trattano l’aristocrazia nel significato originario e più proprio, la prevalenza, il governo dei più meritevoli, intesi questi come coloro che sono moralmente e intellettualmente i migliori o i più valorosi, identificati poi, in un secondo tempo, con i nobili, quelli cioè che, per diritto di sangue, appartengono alla classe più elevata della società, nella quale costituiscono un gruppo privilegiato; la cavalleria, che era originariamente la Milizia a cavallo, e nel medioevo, era l’istituzione politica e sociale, della quale facevano parte i cadetti esclusi dalla trasmissione ereditaria del feudo, legati fra loro da un giuramento di fedeltà non a un signore, ma agli ideali di giustizia e d’onore, di difesa della fede, dei deboli, delle donne, secondo la morale celebrata dalla poesia cavalleresca; la nobiltà, o meglio la condizione e il fatto di appartenere alla classe dei nobili, di avere le distinzioni, le prerogative, i privilegi che erano connessi a tale appartenenza; ma anche il senso dell’eccellenza, della superiorità, derivante dalle origini e dalla tradizione, o dalla propria stessa natura, e anche elevatezza spirituale, perfezione morale o intellettuale, per indole, pensiero, propositi, sentimenti; lo stile, termine usato nelle più svariate forme dello scibile umano, ma anche come modo abituale di comportarsi, agire, parlare; il costume, la consuetudine; come signorilità di modi, discrezione e correttezza nel comportarsi; il tema attuale della barbarie, ovvero la condizione di un popolo barbaro che effettuò importanti migrazioni in vari parti del mondo nella civiltà primitiva e che oggi ancora designa un comportamento crudele e primordiale. Nella pubblicazione compaiono una miriade di persone che lasciano un loro pensiero conforme alla propria formazione e personalità, antica, moderna e contemporanea, spesso in antitesi l’una con l’altra, e con una cultura e visibilità umane ben diverse tra loro. Ogni testo dovrebbe servire alla loro identificazione e spesso è il meglio della loro produzione. Con un così elevato numero di contributi la poderosa opera si suddivide in tre corpi: un saggio dell’autore, un saggio di Amadeo-Martin Rey y Cabieses ed un lungo Florilegio di Autori (selezionati senza malizie araldico, genealogico nobiliari) ove figurano: Simonetta Agnello Hornby, Felicita Alliata di Villafranca, Maria Patrizia Allotta, Almanacco Nobiliare del Napoletano L’Araldo, Hans Christian Andersen, Achille Angelini, Fabrizio Antonielli d’Oulx, Ludovico Ariosto, Aristotele, Jules Amédée Barbey d’Aurevilly, Maurizio Barraccano, Giacomo C. Bascapè, San Basilio Magno, Walter Begehot, Hilaire Belloc, Benedetto XV, San Bernardo di Chiaravalle, Andrew Bertie, Severino Boezio, Matteo Maria Boiardo, Nicolas Boileau, Louis de Bonald, Francesco Bonanni di Ocre, Guglielmo Bonanno di San Lorenzo, Salvatore Bordonali, Giovanni Botero, Pierfranco Bruni, Edmund Burke, Robert Burton, Antonino Buttitta, Tommaso Campanella, Cristina Campo, Albert Camus, Gaspare Cannizzo, Giovanni Cantoni, Antonio Capece Minutolo di Canosa, Antonio Caprarica, Franco Cardini, Thomas Carlyle, Baldassarre Castiglione, Miguel de Cervantes, Arnolfo Cesari d’Ardea, Abate Cesarotti, Nicolas de Chamfort, Emil Cioran, Paul Claudel, Codice Cavalleresco Italiano, Paulo Coelho, Confucio, Plinio Corrèa de Oliveira, Manlio Corselli, Benedetto Croce, Fernando Crociani Baglioni, Giorgio Cucentrentoli di Monteloro, Jean Baptiste de la Curne de Saint- Palaye, Camillo d’Alia, Lucio d’Ambra, Gabriele D’Annunzio, Ugo D’Atri, Pier Felice degli Uberti, Massimo d’Azeglio, Da Ponte, Mozart, Dante Alighieri, Ferruccio De Carli, Gio Battista De Luca, Massimo De Leonardis, Federico De Maria, Roberto De Mattei, Giuseppe Della Torre, Goffredo di Crollalanza, Charles Dickens, Diogene, Maurizio Duce Castellazzo, Guillame Durant, Meister Eckhart, Francesco Emanuele e Gaetani di Belforte e di Villabianca, Epicuro, Eraclito, Felix Esqirou de Parieu, Euripide, Julius Evola, San Pier Giuliano Eymard, Marcello Falletti di Villafalletto, Giuseppe Attilio Fanelli, Massimo Fini, Domenico Fisichella, Gustave Flaubert, Jean Plori, Francesco I re delle Due Sicilie, San Francesco di Sales, John Fulton Scheen, Sigmund Freud, Luciano Garibaldi, Panfilo Gentile, Innocent Gentillet, Giuseppe Giacosa, Fausto Gianfranceschi, Vincenzo Gioberti, Sandro Giovannini, Giovenale, Domenico Giuliotti, Johann Wolfang Goethe, Nicolas Gómez dà Vila, Edmond e Jules De Goncourt, Salvator Gotta, Remy de Gourmont, Jacques Goussault, Arturo Graf, Romano Guardini, Guglielmo, Arcivesco di Tiro, Guido Guinizelli, Guittone d’Arezzo, Martin Heidegger, Heraldica, Angel Herrera Oria, Hirohito, imperatore del Giappone, Santa Ildegarda di Bingen, Incmaro di Reims, Henry James, Roberto Jonghi Lavarini, Ernst Jünger, Sören Kierkegaard, Tommaso Landolfi, Stefano Lanuzza, Leone XIII, Emmanuel Lévinas, Alberico Lo Faso di Serradifalco, Giorgio Lombardi, Leo Longanesi, Otto von Lossow, Costantino Lucatelli, Raimondo Lullo, Franco Maestrelli, Joseph de Maistre, Gennaro Malgieri, Thomas Malory, Giuseppe Manzoni di Chiosca, Oliviero de la Marche, Giovanni Maresca di Serracapriola, Carlo Marullo di Condojanni, San Matteo, Charles Maurras, Cesare Merzagora, Clemente di Metternich, Jean de Meun, Jules Michelet, Enzo Modulo Morosini, Thomas Molnar, Michel de Montaigne, Montesquie, Cirillo Monzani, Attilio Mordini, Carmelo Muscato, Napoleone Bonaparte, Friedrich Nietzsche, Novale, Michel Onfray, Alfredo Oriani, Diego Ortega, José Ortega y Gasset, L’Osservatore Romano, Pier Paolo Ottonello, Aldo Palazzeschi, Silvano Panunzio, San Paolo, Giovanni Papini, Vilfredo Pareto, Bent Parodi di Belsito, Blaise Pascal, Roberto Pecchioli, Camillo Pellizzi, Giuseppe A. Pensavalle de Cristoforo dell’ingegno, Francesco Pericoli Ridolfini, Regine Pernoud, Fernando Pessoa, Francesco Petrarca, Pio XII, Platone, Jacques Ploncard d’Assac, Porfirio, Antonio Possevini, Ezra Pound, Proclo, Alexander Sergeveich Pushkin, Rob Reimen, Jules Renard, Antoine Rivarol, Annibale Romei, Jean Rostand, Sforza Ruspoli, Roberto Russano, Alessandro Sacchi, Antonino Sala, Madaleine de Souvré de Sablé, Riccardo Scarpa, Emanuela Scarpellini, Friedrich Schlegel, Karl von Schmidt, Arthur Schnitzler, Arthur Shopenhauer, Seneca, Sergio Sergiacomi de Aicardi, George Bernard Shaw, Primo Siena, Sofocle, Luigi Athos Sottile d’Alfano, Othmar Spann, Edmund Spenser, George Ernst Stahl, Edgardo Sulis, Torquato Tgergeasso, Vanni Teodorani, Teognide, Gustave Thibon, Ludwig Tieck, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, San Tommaso d’Aquino, Cesar Carlos de Torella, Ugo di San Vittore, Marco Vannini, Diego de Vargas Machuca, Piero Vassallo,
Auvenargues, Marcello Veneziani, Giovanni Verga, Giambattista Vico, Carl-Alexander von Volbort, Karl Ferdinand Werner, Oscar Wilde, Roberto Zavalloni, Stefano Zecchi. Proprio per aggiungere un tocco che ben rappresenti le tante recensioni alla pubblicazione, riporto quella di Giovanni Taibi: «La distinzione per non perdersi nel mare magnum della volgarità di usi e di costumi oggi imperante, la distinzione per rivendicare la propria individualità davanti alla massa plaudente che ha come unico merito quello di correre in soccorso del più forte! Come distinguersi, come essere sé stessi, come vivere con stile in un tempo di barbarie? Sono queste le domande che si pone il saggio di Tommaso Romano “Elogio della distinzione”, (fondazione Thule cultura) in cui passa in rassegna l’esegesi e la storia dell’Aristocrazia, della Cavalleria e della Nobiltà. Se i natali danno in qualche modo un imprimatur necessario, questo solo non è sufficiente per fare di un uomo un gentile. Dante ce lo insegna: la vera nobiltà non risiede solo nella stirpe e nel sangue ma soprattutto nel cosiddetto cor gentile ovvero nell’animo capace di provare nobili sentimenti e comportarsi di conseguenza. A partire da questo assunto Romano, in quello che si può considerare un vero e proprio manuale del viver cortese, diventa guida sapiente per chi intenda intraprendere con totale disinteresse economico e professionale la strada verso la distinzione, contro la massificazione e la standardizzazione dell’uomo di oggi. “La distinzione può essere perseguita da tutti volendolo, ordinando le idee, seguendo studio, esempi e ciò che di nobile ditta dentro” (p. 5). Come d’altronde ci insegna il filosofo Epicuro: “Non la natura, che è unica per tutti, distingue i nobili dagli ignobili, ma le azioni di ciascuno e la sua forma di vita” (p. 68). Nella prima parte del libro troviamo l’Apologia della condizione singolare in cui Romano si appoggia a uno dei pilastri del suo pensiero: la Tradizione. Come ama spesso ripetere: “Tanto più forti saranno le sue radici tanto più l’albero (l’uomo) crescerà in altezza (morale)”. Dopo avere passato in rassegna il pensiero legato alla Tradizione Romano affronta un tema a lui particolarmente caro: la casa. Essa da semplice dimora diviene la cartina di tornasole da cui è possibile avere un identikit esatto di chi la abita, del suo (buon) gusto, del modo in cui passa il tempo libero, del valore che dà agli oggetti che diventano testimonianza delle sue esperienze di vita. Sapere distinguersi non può che passare dal modo in cui si vive la casa, dal rapporto che si instaura con essa ma questa non deve necessariamente essere un rifugio solitario, un eremo senza terra ma “può aprirsi, accogliere pochi e scelti interlocutori per goethiane affinità elettive... I libri, le suppellettili, gli oggetti, la musica, le buone persone, un animale fedele, la memoria ci faranno ala non certo ingombrante” (p. 22). Si può dunque affermare con Romano che la casa è la proiezione della propria identità. Dopo questa prima parte di carattere didascalico il volume presenta un florilegio di autori diversi, per stile, pensiero ed epoca storica, che nei loro scritti e nel loro pensiero hanno codificato regole e grammatica della Nobiltà, spiegato il motivo della nascita della Cavalleria e dell’Aristocrazia. In quelli più recenti, è presente la biunivoca corrispondenza tra caduta di valori dei nobili ideali e crisi del tempo storico presente. Tra le tante citazioni mi piace riportarne una di Nicolas Gomes Davila. Lo scrittore, aforista e filosofo colombiano così scrive: “Più gli uomini si sentono uguali, più facilmente tollerano di essere trattati come pezzi intercambiabili, sostituibili e superflui. L’uguaglianza è la condizione psicologica preliminare delle carneficine fredde e scientifiche”. Se ci riflettiamo bene, altro non è che un elogio della diversità alla rovescia cioè mettendone in evidenza i limiti autodistruttivi dell’uguaglianza intesa come obiettivo supremo da raggiungere per un popolo che vuol definirsi civile. Segue infine un saggio sulla Nobiltà, (scritto appositamente per Tommaso Romano) sulla Cavalleria e sull’Aristocrazia dell’illustre studioso, il nobile spagnolo Amadeo-Martin Rey y Cabieses, (Componente dell’Audizione Generale e Consigliere della Real Deputazione del Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio nonché Membro Corrispondente del Collegio Araldico di Roma) storico e critico nell’ambito araldico-cavalleresco della Classe aristocratica e della Tradizione iberica, che mostra una particolare attenzione alla storia della nobiltà italiana. Lo scrittore spagnolo espone a chiare lettere quelli che sono i tratti distintivi della nobiltà: il rispetto della parola data, la bontà, la generosità, il valore e l’umiltà del cuore. Nel capitolo finale, prima di una ricchissima bibliografia, c’è il Congedo al Café de Maistre, in cui Romano, malinconicamente, constata come ai nostri tempi la cultura, l’arte, la tradizione, la stessa fede siano diventati degli pseudo valori da utilizzare a piacere per il proprio tornaconto. E allora cosa fare? La ricetta di Tommaso Romano è semplice eppur non sempre facile da attuare: “Resistere, pur sapendo di servire una causa perduta. Profferire parole e concetti solo quando richiesto, declinando con garbo ma fermamente la compagnia di arrivisti, molesti e insulsi; studiare e scrivere per sé e per chi egualmente non si piega. mostrare la bellezza e la potenza del creato. Tutto ciò con la ferma consapevolezza di stare in minoranza, in assoluta minoranza, forse testimoni attivi di una ipotetica, eventuale futura memoria” (pp. 133-134). Una voce fuori dal coro, un anticonformista assoluto che nella vita ha sempre seguito i suoi ideali a costo di rimetterci personalmente, pur di non abbassare la testa davanti al potente di turno. Questo è, ed è sempre stato, Tommaso Romano per chi lo conosce e a cui non fanno stupore le lapidarie frasi del suo “Elogio della Distinzione”. Per i pochi che non lo conoscono ancora, questa lettura servirà a comprendere la figura di un intellettuale a volte scomodo ma per questo più interessante da studiare perché, attraverso il capovolgimento della prospettiva, ci fa vedere la realtà con occhi diversi e disincantati». Nella nostra società detta globalizzata è meraviglia e sospetto affermare che ci si sente “cittadino del mondo”, senza per questo sentirsi cosmopoliti. Del resto Tommaso Romano è sempre andato contro corrente per quasi tutta la sua vita, per lui “L’Elogio della Distinzione” è l’elogio dovuto a chi si distingue dalla massa amorfa ed uniforme, di chi si tira fuori dal gregge, assumendo posizioni nette ed inequivocabili, fuori dai sofismi e dall’ambiguità, di chi pur ricercando la sintesi, rifiuta il sincretismo che attualmente sembra espandersi a macchia d’olio su tutte le questioni più importanti del mondo: da quelle politiche a quelle economiche e perfino alle questioni riguardanti la sfera più intima e privata del genere umano. Tommaso Romano, in questo mondo che cambia per opportunità i propri principi, muta le opinioni per ottenere nuovi benefici, inventa nuove soluzioni pescando dal passato, ha la particolarità che nei quasi 40 anni che lo conosco è rimasto quell’uomo serio, corretto, lineare, onesto con le sue pietre miliari che sono le stesse provenienti dalla nostra tradizione europea, dalla nostra identità cristiana, dalle nostre famiglie che ci hanno fornito quegli strumenti di saggezza utili a lavorare senza sosta per quella aristocratica società migliore che amiamo e a cui aspiriamo. Ho ancora negli occhi l’immagine di quel giovane che durante un suo convegno a Montecarlo in una dolce estate dei primi anni Ottanta, esprimeva ieri (come fa oggi) quella sintesi che non muta né può mutare sino alla fine della nostra moderna società, rappresentata e diversamente incarnata dai tanti personaggi che hanno lasciato quei loro messaggi che l’Elogio della Distinzione ci racconta nelle sue belle pagine. 
da: "Nobiltà", n. 137 anno XXIV, Milano, marzo-aprile 2017